Friday, May 19, 2006

(No?) global

Adesso che con alcuni loro "illustri " esponenti si sono avvicinati, e di molto, a posizioni di governo, tacciono. Probabilmente apettano al varco i loro compagni, pronti a rinfacciare loro la perdita dello "spirito di lotta", sostituito con l'adesione al potere. Sto parlando dei "no global", di questo eterogeneo movimento che da alcuni anni imperversa ormai in tutto il mondo. Non sono mai stato comprensivo con le loro tesi, nè tantomeno con i loro metodi di protesta. Ma stavolta voglio fare un ragionamento non sul fatto che abbiano ragione o torto, ma su come questo movimento sia in realtà una galassia eterogenea di idee e comportamenti non solo diversi, ma anzi opposti.
Il movimento no global nasce sostanzialmente a Seattle, negli Stati Uniti, nel 1999. Durante la riunione del WTO (World Trade Organization) un grosso gruppo di manifestanti assediò per giorni l'area circostante alla sede delle riunioni. Da lì iniziò il pellegrinaggio dei gruppi e delle associazioni aderenti a questo movimento in tutte le città sedi di incontri di vertici politico-economici internazionali. Su tutte spunta la città di Genova, sede del G8 del 2001, evento ricordato più che altro per i tristi fatti che accaddero proprio durante le manifestazioni di protesta.
Il problema concettuale che mi sono sempre posto, cercando di capire quali componenti costituissero un movimento così eterogeneo, è la seguente: ma cos'hanno da spartire questi gruppi tra loro? La risposta, per gran parte di loro, è: l'odio per gli Stati Uniti, per i Paesi industrializzati e per le multinazionali, causa di tutti i mali del mondo. Ripeto, non scrivo per giudicare le opinioni. Il problema che mi pongo è più grave, e di tipo diverso. Oltre a questo legame i no global condividono poco.
In primo luogo alcuni di essi condividono la violenza dei gruppi più estremisti, (anarchici, black block o semplici teppisti), ed altri no. E già questa mi sembra una discriminante grave. Attenzione: chi condanna a parole i violenti, non creando poi un servizio d'ordine nei cortei e dando la colpa degli scontri sistematici all'atteggiamento (a loro dire fascista) della polizia, è assimilabile a chi le violenze le pratica. Ovviamente può capitare, nel momento in cui si manifestano in modo pacifico le proprie idee, di spaccare qualche vetrina; è l'atteggiamento della polizia che istiga i compagni a fare questo.
L'altra grande divisione, a mio avviso, è quella tra localisti e mondialisti. Vi sono dei gruppi che, ad esempio, sostengono il diritto dei migranti e delle popolazioni del terzo mondo di non venire snaturati nella loro cultura e nelle loro tradizioni. Col risultato di puntare a dar vita ad una cultura "mondiale", una miscellanea di culture (in particolare del terzo mondo), quasi da contrapporre alla cultura mondiale dominante, costituita dal lifestyle anglo-americano, che gli Stati Uniti e le multinazionali vorrebberro imporre. I "cittadini del mondo" che propongono questa cultura mondialista si riuniscono in quelle manifestazioni a tema, piene di gente vestita con abiti dal gusto etnico, con bancarelle di bigiotteria e oggettistica afro-asiatica (magari made in China), bancarelle di kebab (che ormai spopolano ovunque), gruppi che suonano musica etnica, rasta e marijuana a volontà. Ma se non vogliamo essere sopraffatti dalla cultura Usa, perchè bisogna autoimporsi uno stile "mondialista", altrettanto monocorde? Il sostegno all'integrazione ai migranti è il contrario del concetto di non globalizzare, che dovrebbe prevedere di aiutare le popolazioni più povere nei loro luoghi d'origine, dando loro la possibilità di progredire (anche se già questo, in fondo, è uno snaturamento di una cultura). La mescolanza di etnie, in genere non porta confronto, ma porta forzatamente o alla supremazia della cultura più forte o alla creazione di una cultura nuova che fa perdere agli individui le radici del proprio passato culturale.
Non credo che il principio dell'uguaglianza comprenda il fatto di avere tutti la stessa cultura. Credo piuttosto che l'uguaglianza imponga a ciascuno di rispettare la cultura altrui, ma proprio partendo dal rispetto della propria. Ma questo non può voler dire ricreare un pezzo d'Africa o d'Asia in Italia. Altrimenti comunque una cultura verrà sopraffatta dall'altra. Allora si tratterebbe solo di decidere quale cultura imporre. Ma così facendo si ricade nell'errore che fanno coloro che vogliono diffondere la cultura occidentale in tutto il mondo. Ergo, il concetto di "no global" viene tradito: non si globalizza secondo una cultura che non si condivide, ma secondo la cultura "mondialista".
Il concetto di " no global" dovrebbe, a mio avviso, insistere anzi sul principio di esaltare le diversità per valorizzarle. Questo è forse l'idea a cui si ispira l'altra parte del mondo no global, i localisti. Ne fanno parte, ad esempio, i contadini francesi e quelli italiani (Coldiretti), che difendono la particolarità e l'unicità delle produzioni agro-alimentari nazionali, contro l'omologazione del gusto che gli organismi internazionali di settore (Unione Europea compresa) vorrebbero imporre. Un esempio analogo può essere fatto per quelle associazioni ambientaliste che lottano per il mantenimento delle biodiversità nelle diverse aree geografiche.
Presa sotto questo aspetto, la battaglia no global è giusta e condivisibile anche da parte mia. Il problema sta nel fatto che il movimento no global non potrà essere un interlocutore credibile finchè non isolerà le frange violente e non chiarirà queste contraddizioni di fondo.

No comments: